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Video Rsa Santa. Chiara

Lo spazio del silenzio.
Mariella Magni, direttrice Rsa Santa Chiara

La grande novità che si sta aprendo all’orizzonte nella nostra realtà, soprattutto nel dialogo con le famiglie che incontriamo e con la quotidianità vissuta con le Ospiti della RSA, è che il nostro lavoro non appartiene alla sfera del curare, ma più profondamente del “prendersi cura” delle persone che vengono ad abitare qui. Un prendersi cura innanzitutto dell’anziano, dunque, ma che non può escludere l’abbraccio anche al contesto delle relazioni fondamentali che sono il tessuto della sua vita. Tre sono le parole che sintetizzano l’esperienza di rapporto che matura in una realtà come questa: Dialogo, silenzio, rispetto In un contesto in cui per la maggior parte delle persone il livello cognitivo è gravemente compromesso, che dialogo è possibile? Stante che fino in fondo non potremo mai sapere cosa l’altro comprende e vive, ritengo che anche nelle situazioni più critiche l’esperienza del dialogo non sia impedita, è solo veicolata su canali differenti. Il primo è sicuramente lo spazio del silenzio e dello stare accanto.  È innegabile che questo apparente vuoto faccia paura, sia a noi operatori che alle famiglie, penso soprattutto ai figli. Fra moglie e marito questo potrebbe essere meno evidente, forse perché nel rapporto affettivo fra uomo e donna o in quello di una madre verso il figlio i gesti hanno una intensità più profonda delle stesse parole.  L’abbraccio di una madre, una carezza, il semplice stare a fianco sono da sempre forme di cura, di un prendersi cura che, ne abbiamo fatto tutti esperienza, nella vita ci ha così spesso “guariti”. Più difficile è l’inverso, ossia dai figli nei confronti del genitore anziano. L’insistente richiesta che infatti ci viene rivolta da loro è quella di “sollecitare e stimolare” la propria mamma, “ma non può fare qualcosa? è sempre lì in silenzio…”. È vero, spesso ritroviamo i nostri anziani in silenzio, ma non è forse anche perché lo spazio che più “abitano” è quello della propria interiorità? Mentre da bambini si sperimenta e si è totalmente protesi al nuovo, alla scoperta, da anziani il tempo che ci è dato è propizio per raccoglierci, per ricapitolare una vita e prepararci, in uno sguardo di fede, al suo pieno e più vero compimento.  In questo cammino si possono trovare dei compagni, ma bisogna accettare di “stare” con l’altro con il dovuto rispetto, quella giusta distanza che sa entrare in punta di piedi, e solo se si è invitati, nella sfera intima dell’altro. Ripeto, tutto questo vale in qualunque condizione l’altro si trovi, perché noi tutti siamo mistero, fino in fondo inconoscibile anche a se stessi. Occorre pazienza, occorre vincere la frustrazione del non sapere cosa dire e fare, rischiando in uno “stare” silenzioso. Tutto questo è molto difficile anche per gli operatori che spesso prediligono un lavoro attivo (riordinare gli armadi, portarsi avanti con i bagni, rifare i letti, preparare cose per il turno successivo…) piuttosto che vivere con l’ospite un tempo che all’apparenza sembra vuoto. È una sfida continua incoraggiare i colleghi a provare a dedicare del tempo alle ospiti semplicemente stando con loro al tavolo, non tutto il turno evidentemente, ma qualche spazio si può e forse si deve riuscire a trovare, siamo solo all’inizio. È una sfida anche per me, che sono educata e permeata dalla mentalità comune a vivere sotto il ricatto di un ideale di performance e di efficienza. Per meglio spiegarmi racconto un episodio che mi ha molto colpita. Un giorno girando per i reparti, come spesso mi capita di fare, ho trovato un’operatrice al tavolo con delle ospiti, il mio primo pensiero è stato: "Ma perché questa non lavora?”, eppure glielo avevo detto io! Avevo suggerito io, quando c’è tempo, di provare a “stare con”. Questo fatto mi ha colpito tantissimo perché la collega era lì in silenzio con queste signore e c’era una pace in quella stanza che sapeva di casa. Me ne sono accorta dopo, non è stato il primo pensiero che, come detto, era meno nobile. Il dialogo, in una RSA, va riscoperto sempre di più come spazio che aiuta a vivere nella dimensione del silenzio. Alla richiesta fortissima da parte dei parenti di fare delle cose (dalle tombole, piuttosto che cantare, far venire dei musicisti) occorre il coraggio di saper proporre uno “stare con”, un farsi compagnia che non sia solo distrarsi, perché forse non è questa la vera richiesta. Intercettare il bisogno si fa sempre più difficile. Quale possibile svolta allora? Ricapitoliamo, i parenti chiedono di stimolare costantemente facendo fare delle attività (per lo più ludiche), gli operatori, quando vedono uno stato di agitazione, pensano che il problema sia somministrare la giusta terapia: “Non vedi che sta male? Sta urlando”. Ma questa non può essere l’esclusiva risposta, l’unica adeguata se non si è capito qual è il vero bisogno. Uno che non sa dove si trova e vuole andare a letto ma non trova la sua stanza, perché urla? Per esprimere un bisogno che non riesce a dire diversamente. Urlerei anche io. Se ho fame ma non riesco a dirlo, allora urlo, o mi agito o faccio quello che faccio… la terapia è spesso data più per accontentare l’operatore che non l’anziano, così, pacificati dal mito della medicina che tutto risolve, ci si calma e magari si riesce anche a gestire il problema, ma è saltato il vero bisogno. È una specie di cortocircuito. Questa è la scoperta che mi sembra possa veramente segnare un punto di svolta nel prendersi cura dell’anziano. Svolta che ha le sue radici nel riconoscere che, in qualunque situazione si trovi, l’altro è sempre una ricchezza per me. Questo presupposto è comunque alla base di ogni relazione che voglia dirsi umana e fonte di bene per entrambi gli interlocutori. All’interno della nostra Casa di Riposo, oltre ad una formazione specifica sul trattamento delle demenze, stiamo facendo dei tentativi per proporre esperienze di bellezza, tramite la musica classica, l’arte, momenti di convivialità con le famiglie che sempre più aiutino a sentirsi parte di un contesto comunitario. Nessuno è fatto per vivere da solo, i vecchi cortili dove si condivideva la vita fra famiglie non esistono più e troppo spesso incontriamo situazioni di totale solitudine che rende la sofferenza insostenibile. È difficile stare di fronte al dolore dell’altro; sono sempre più convinta che si possa affrontare questa fatica se non ci si concepisce più come singoli individui, ma come persone che fanno parte di una comunità. Una casa di riposo può trovare la sua strada dentro un’esperienza di vita comunitaria, in caso contrario rischia di diventare solo un grande reparto di medicina (che è forse il mandato delle Istituzioni che ci viene sempre più assegnato, ma è un punto che meriterebbe una trattativa a parte).

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