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Stare in silenzio, ascoltare, esserci.

Ho cercato di riassumere i requisiti del lavoro che stiamo progettando nelle parole «Vegliate con me». Il nostro fondamento più importante per il St. Christopher è la speranza che nel vegliare possiamo imparare non soltanto come rendere i pazienti liberi dal dolore e dalla sofferenza, come capirli e non abbandonarli mai, ma anche come stare in silenzio, come ascoltare, come esserci. Nel comprendere ciò capiamo anche che il vero lavoro non è affatto nostro.
Stiamo costruendo qualcosa di molto più grande di noi. Penso che se ricorderemo questo ci renderemo conto che si tratta di un lavoro per la gloria più grande di Dio."


(da "Vegliate con me: Hospice: un'ispirazione per la cura della vita" di Cicely Saunders, p.44)

L’attenzione ai valori e alle convinzioni della persona malata

Intervista video a Don Roberto Pennati, martedì 19 maggio 2009 

Don Roberto Pennati è un prete del Patronato San Vincenzo. Ha 61 anni e vive nella sua casa, alle porte di Bergamo,  vicino al Rondò delle Valli, dove aveva sede la comunità per tossicodipendenti “Agro di Sopra”, da lui fondata nel 1978. Nonostante Don Roberto sia stato colpito da una grave malattia neurologica, la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), la  comunità continua il suo cammino ed oggi, oltre che dagli “ex”, è frequentata da persone che vivono al centro della  società: manager, intellettuali, preti, genitori che hanno trovato in don Roberto un padre e una guida. Abbiamo chiesto a  Don Roberto, attraverso il Direttore dell’Eco di Bergamo, Dr. Ettore Ongis, di rilasciare un’intervista-video da poter trasmettere al Corso di Formazione per volontari organizzato dall’Associazione Il Passo ad Osio Sotto. Il contenuto  dell’intervista viene pubblicato integralmente come è stato registrato. 
 

Buon giorno don Roberto come sta? Dire bene è troppo, però non c’è male. La malattia avanza? La malattia avanza, fortunatamente molto adagio, anche se il troppo adagio diventa pesante, perché gli anni passano e sono in questa situazione sempre un pochino più precaria. Tredici anni? Sono tredici anni, che però non mi alzo più dalla sedia sono sette anni. Mi hanno detto che è stato un momento difficile quello in cui ha dovuto superare l’idea di non riuscire più a mangiare da solo? Sì, è stato l’inizio di alcuni gesti, da cui dovevo dipendere e sono stati quei due tre o quattro che l’uomo preferirebbe non dover mai affrontare, ma poi si crea una vicinanza con la persona che ti aiuta che è, come si può dire, non ti fa pesare questa cosa, questa è la cosa più bella. Don Roberto come fa a sopportare tutta questa fatica, non sente mai il desiderio di dire: “Ho sofferto abbastanza”? Mi ricordo una delle sue frasi più belle: “Come è difficile morire adagio”. È vero, ma io poi questa frase devo continuare a elaborarla, perché tra un po’ sarà la mia ora di andarmene, e più il tempo passa più devo imparare a star dentro a questo adagio che diventa sempre più adagio. Allora invento, scopro modi, modalità, e allora mi accorgo che, ad esempio, ogni giorno al mattino io ho bisogno di qualcosa che mi prende, che mi interessa, che voglio incominciare, che voglio scoprire. Ad esempio, incomincio con la lettura della Parola di Dio che mi dà il senso della giornata, ma poi ho le mie piccole cose che invento io e i miei amici. Io credo che sia questo il risorgere e rinascere ogni giorno. Io lo vedo di più perché ho bisogno di inventarmelo, io sono qua seduto, e cosa faccio seduto? Allora dico devo fare qualcosa! Uno va a lavorare, non è che dice: “Stamattina mi invento il lavoro da fare”. Il direttore dell’Eco sa che deve fare il direttore dell’Eco, io invece devo inventarmi il lavoro della giornata. Cosa si è inventato questi anni? In questi anni mi hanno aiutato tanto i ricordi e lo scrivere, io non sono mai stato capace di scrivere, ho dovuto imparare, ma non perché scrivo bene, ma lo scrivere mi fa camminare nella vita e me la fa riscoprire sempre più grande, più bella, più interessante ecco. Il C.A.I. l’ha appena premiata come miglior “alpinista”, ha continuato ad andare in montagna lei? Sì, questo è un esercizio eccezionale che io ricordo molto volentieri. Certe notti quando non riesco a dormire scelgo la montagna o un rifugio particolare e lo percorro metro per metro, minuto per minuto dall’inizio alla fine, ogni tanto vado troppo veloce e poi torno indietro. In questo anche le montagne più semplici, son tutte delle esperienze di gratificazione che rivivo con la mia mente, mi meraviglio di come noi abbiamo queste possibilità. È un ripercorrere con la memoria tutti i passi, lei riesce a ricordarsi sentieri, sente i profumi, l’aria fresca? Quella è dura, devo andare giù sotto ogni tanto a sentire cos’è il sole, cos’è l’aria, che cos’è il verde, lo vedo anche da qui che cos’è il prato che ti pizzica il naso. Non la imbarazza il dover dipendere in tutto dagli altri? E sì, questo è sempre un esercizio molto difficile, le prime volte ad esempio, per certe cose ci vuole un mese o due di stringere i denti, chiudere gli occhi e dire: “pazienza, pazienza”. Oppure mi viene sempre questa espressione: “Signore, perdonami”. Non so come mai quando sono in quei momenti in cui mi sento nudo di fronte a chi mi aiuta, ma in tutti i sensi, e “Signore, perdonami” è come dire: “Io come posso essere degno di tutta questa attenzione?” È una cosa così mi viene tutte le mattine, è la prima che mi viene, dopo bisogna passare di qui, alza la gamba, ti fa male la spalla, girati, però la prima è questa cosa qui. Poi la delicatezza, l’attenzione delle persone, perché poi intanto ti fa male e brontoli un po’. Subito dopo però, quasi sempre chiedo scusa. Senta ci sono alcuni tra cui Piergiorgio Welby, di cui abbiamo conosciuto tutti l’epilogo triste, ci sono alcuni che dicono che questa non è più vita! Io non voglio ancora una volta giudicare Welby perché la sopportazione non so dove sta di casa, io me la scopro e la ricevo ogni giorno, io lo dico sempre con il minimo di presunzione possibile, non so come faccio ad accogliere ore e momenti, qualcuno me li regala, la casa, le persone che mi aiutano, la testa, la storia, la fede, però ringrazio per tutto questo. Lo dico con gratitudine: riesco a vivere queste giornate con una grande serenità, gli amici che mi provocano, che mi dicono facciamo così facciamo cosà, io cerco di stargli dietro. Questo però mi riempie le giornate, tanto è vero che mi portano un CD, dopo cinque giorni mi chiedono se l'ho visto, rispondo: “no, non ho avuto tempo”, e loro replicano: “sei lì tutto il giorno seduto a far niente!”, ma non è vero. Quando ho in mente qualcosa, mi impegno in quella cosa, e la giornata mi passa impegnandomi in quella cosa, non riesco a saltellare di qua e di là. Il direttore dell’Eco che mi chiede una riflessione, io mi devo impegnare due giorni lì e il resto va in secondo piano. Solo che il direttore dell’Eco te lo chiede il giorno prima! Non mi lascia neanche due giorni. Ascolta recentemente sono stato a sentirti mentre dialogavi con il dottor Melazzini, l’ultima volta che sei uscito di casa è stata una festa e Melazzini era molto contento di averti portato fuori da questa tua stanza, tu hai fatto una riflessione su Giobbe. A un certo punto hai voluto chiarire alcune cose che riguardano la figura di Giobbe, che ha un certo punto piegato in tutto si è ribellato a Dio. Ma ha sbagliato Giobbe a ribellarsi, o aveva ragione? Aveva ragione, soprattutto per quel tipo di divinità che gli amici gli presentavano. Allora Giobbe dice, in fondo è uno dei sensi più profondi del suo testo: “Se voi amici mi presentate un Dio che mi giudica, che mi condanna, che mi fa soffrire per i miei peccati, e semplifico, io spero che ci sia un Dio, più grande che è quello in cui credo, che giudicherà il vostro Dio”. Questo è il senso profondo di Giobbe, che si ribella al Dio che gli amici gli presentano. Però si ribella anche alla sua sofferenza ad un certo punto! Certo, perché dice quel Dio che giudicherà il vostro, è quello che comprenderà, che mi aiuterà a comprendere la mia sofferenza che non voglio accettare in nessun modo. Ha senso la sofferenza? In sé e per sé la sofferenza non ha senso, dentro la vita di un uomo, quando si incontra la sofferenza occorre trovare, non per farla diventare umana, ma il modo, il senso di attraversarla come uomini e donne di coscienza, di libertà, di fede, di forza, di come coloro che sanno leggere la vita in profondità. Allora lì la sofferenza dice chi è l’uomo e chi è la donna, e chi soffre è colui che meglio può scoprirla e può individuarla. Don Roberto ti ho portato questo libretto che si chiama “Le lettere di Berlicche” di Lewis. Berlicche è un diavoletto che sta imparando il suo mestiere, cioè a catturare le anime, e a portarle a Satana e ha uno zio Malacoda che gli insegna come fare. Ad un certo punto parlano del dolore umano, (è un libro degli inizi del Novecento quindi profetico da questo punto di vista), lo zio gli dice: “Quanto sarebbe molto meglio per noi se tutti gli esseri umani morissero in case di salute costose, in mezzo a dottori che mentiscono, infermieri che mentiscono, amici che mentiscono, come io vi ho educati a fare. Possiamo dire che l’anticamera dell’inferno è un bellissimo ospedale in cui morire assistiti, accuditi come dei re ma, senza più una speranza del giorno dopo. Certo, in queste frasi di questo zio diavolo c’è la tentazione forte, che è molto attuale, di mentire alla persona ammalata, io non dico che bisogna dire tutto, però quando è appena possibile e giusto, è corretto, è importante dirlo. Noi abbiamo testimonianze di ammalati che hanno detto: “vengono qua tutti mi dicono come stai bene, ma tutti sanno che ho un tumore, ed io sono il primo a saperlo”. Uno si sente come preso in giro, è come vivere in queste case costose dove la medicina toglie dalla relazione, dal confronto con sé stessi, è come dire “io sono qui accudito per cui non devo preoccuparmi del mio corpo, di me stesso, della mia vita”. Questa è la peggiore delle situazioni perché toglie alla persona il fatto di vivere la sua malattia, ma viverla con i parenti, gli amici, viverla anche con il medico, ma il medico che sta vicino a te per quello che tu sei, non nascondendoti quello che tu vivi, o quello che stai passando, o stai sperimentando, che il medico ti aiuti a vivere quello che stai vivendo, non a nasconderti quello che stai vivendo. Quanto pesa lo sguardo pietistico di quelli che le stanno intorno, o di chi magari in un momento in cui lei è giù di morale, la forza di reagire? Il malato ha dei tempi un po’ particolari, spesse volte, soprattutto quando nel suo camminare lui incontra una cosa che è sua, che è un suo, un limite sopravvenuto in quel momento, quel limite, quella fatica, quella sofferenza, quella novità, deve metabolizzarla un attimo, prima di parlarne, prima di affrontarla, prima di essere aiutato a sostenerla, perché se no è come dire: “io non so ancora cosa devo fare, e tu mi dici cosa devo fare”. Invece aspetta che voglio vedere cosa mi sta capitando, poi tra qualche giorno, dopo che sarò riuscito a passare attraverso questi giorni di tristezza, insieme troveremo come fare. Però ci vuole questo momento che la persona trova dentro di sé il modo di affrontarla, perché se no, se gli capita qualcosa e delega immediatamente, mi deresponsabilizzo, io non ci penso. Qual è la giusta attenzione ai valori e alle convinzioni della persona ammalata? Ogni persona ammalata credo abbia una serie di aspettative, di sogni, di fatiche, di sofferenze, allora ogni persona esprime qualcosa, esprime richieste, esprime il desiderio di relazione, il desiderio di essere, tutte queste esigenze vanno comprese e capite, nella conoscenza reciproca, nell’ascolto, nello stare vicino, nello stare insieme. È difficile andare da una persona a dire tu hai bisogno di questo… A parte le indicazioni mediche di fondo, però, tra le altre cose importanti, quella persona da dove viene, che storia ha, che famiglia ha. Ecco chi sta vicino, deve conoscere un pochino queste cose per accogliere questa sua storia e da lì incominciare a costruire qualcosa insieme, altrimenti la persona ammalata, guaribile sarà sempre una persona indifesa cioè, in-difesa che si difende da coloro che lo vogliono accudire, ma a modo loro. Io noto, occorre inizialmente una grande delicatezza, anche di voce, di tratto, non serve intervenire con forza per darti forza. Se tu intervieni a voce alta con un ammalato lo schiacci, io ho questa esperienza, quando uno viene qui e chiede in modo vivace: “come va?” Anche solo rispondere, per me è fatica. Se invece uno mi parla molta delicatamente, io mi sento molto più a mio agio, molte volte gli ammalati inguaribili hanno già poche forze, non puoi pretendere che siano pimpanti e con voce alta, è una banalità ma una esperienza che io vivo. Che cosa è buono per un ammalato? Io credo che le cose buone per una persona ammalata, sono buone quando sul piano della sua vita c’è anche solo qualche filo d’erba buono. Un filo d’erba cos’è niente, in un prato ci sono milioni di fili d’erba, per la vita di un uomo è sufficiente che nella sua vita ci sia qualche piccolo filo d’erba che cresce ancora, un sorriso, rispondere con un sorriso, è un filo d’erba fortissimo, e finché c’è quello, ne avanza. L’altra cosa è, che io sperimento e ho visto che la vita, adesso lo capisco meglio, è stata sempre un regalo, sempre!! Se io ho fatto qualcosa nella mia vita è l’un per cento, tutto il resto è regalo, regalato, e da ultimo ogni persona ammalata, anche una persona sana deve comprendere come noi siamo ospitati dentro la vita. È un atteggiamento che aiuta molto ad essere non presuntuosi. Io non costruisco la mia vita, si dice spesso anche questo, ma io credo che il malato lo scopra molto, io sono ospitato dentro la mia vita. Queste sono le dimensioni che sto pensando in questi ultimi mesi. Grazie tante Don Roberto.

Testimonianza di un malato di SLA

Buona sera a tutti, mi chiamo Paolo, ho 45 anni e ho la SLA. Una grande malattia dal nome piccolo, parafrasando Prince. Per chi non la conoscesse, in poche parole, per svariati motivi ancora sconosciuti, nella SLA i motoneuroni, quelle cellule che comandano i muscoli, smettono di funzionare. I muscoli, velocemente o lentamente, diventano atrofici, paralizzando l’ammalato. Non esiste, allo stato attuale della medicina, alcuna cura, nemmeno che rallenti i sintomi. Non muovo le braccia, non parlo, ma riesco a star in piedi. Ho scritto questo mio intervento utilizzando un comunicatore a puntatore oculare. Vivo con mia moglie Paola e con nostra figlia Emma, che ha 3 anni. Anche mia moglie ha la SLA, ma la sua è una forma diversa dalla mia. Infatti Paola è, come dire, una portatrice sana. Mi spiego meglio: lei mi assiste e si prende cura di me, mi veste, mi lava, mi dà da mangiare e da bere, mi porta in giro, capisce i miei muggiti grazie a una sorta di telepatia, insomma, fa tutto quello che io non posso più fare. E lo fa con grande pazienza. Paola vive quindi la malattia e la sofferenza esattamente come la vivo io. Inoltre deve occuparsi della casa, del lavoro, di nostra figlia. A quanto pare, nella malattia, a lei è toccata la parte più faticosa. L’amore di mia moglie mi commuove. Dicono che la SLA   non sia una malattia contagiosa, ma non è così. Le malattie importanti, quelle che ti cambiano la vita, sono sempre contagiose. Un cancro, un ictus, la SLA, si diffondono tra gli affetti più cari e, che lo si voglia o no, questi ne condividono le pene. Ci tengo a chiarire una cosa. Non sono un saggio, non sono un filosofo, non sono uno studioso di teologia, né tantomeno ritengo di avere la verità in tasca o una facile soluzione quando nella vita capitano certe terribili situazioni. Quello che scrivo qui è solo il mio pensiero, che può essere più o meno condivisibile, e la mia esperienza di malato. E per mia, intendo proprio questo, cioè personalissima e non assimilabile ad alcuna esperienza di altre persone, nemmeno con la stessa malattia. La sofferenza è personale, intima. Il mio sguardo sulla malattia e, forse, il modo in cui la vivo, è atipico. Io sono fisioterapista, quindi sono, in qualche modo, passato dall’altra parte, come fossi un insegnante che si ritrova all’improvviso studente alle prime armi. Quando il caro dott. Bulla ci invitò a questa serata e ci disse che l’argomento sarebbe stato il libro di Giobbe, mi sono sentito lusingato e un po’ in difficoltà. Beh, vi devo confessare una cosa: prima di ammalarmi non ero credente. O meglio, credevo che ci fosse una qualche spiritualità nell’uomo, e nella Terra, ma non ero credente in Dio. Quindi, ho pensato, cosa potrò mai dire io riguardo a un argomento così importante e conosciuto, su cui si sono spesi fiumi di parole e che, tutto sommato, ci tocca da così vicino nei momenti più bui della nostra esistenza? Ho quindi deciso che ciò che avrei potuto raccontare era la mia testimonianza, di come cioè, grazie, anche se grazie non è la parola più indicata, alla mia malattia, sono arrivato a conoscere Dio. Quando mi fu data la diagnosi, la mia vita non cambiò. Anzi, cambiò ma in meglio, dato che in quei giorni nacque Emma, nostra figlia. Una brutta notizia non cambia la vita, è solo una notizia. Però nei giorni e nelle settimane seguenti mi venne, quasi fisiologica, una domanda: perché a me? Perché io? Cosa avevo mai fatto per subire una condanna simile? Mi considero una persona buona, quindi perché? Scommetto che chiunque, nei miei panni, avrebbe avuto dei dubbi simili. Li ebbe anche Giobbe. Ovviamente non riuscii a trovare una risposta e a placare le mie inquietudini. Cambiai allora domanda, allargando, per cosi dire, il mio orizzonte. Quello che mi chiesi fu: perché non io? Cosa avrei avuto di così speciale per non ammalarmi di una malattia che non guarda in faccia a nessuno? Inutile dire che anche questa domanda rimase senza risposta. Allora aprii ancora di più la visuale e mi resi conto della vastità di sofferenza presente al mondo. Il mio dolore era solo un granello di sabbia nel deserto. E mi venne la domanda che ci comprende tutti, sani e malati: perché? Perché nel mondo succedono cose orribili a persone buone? Che senso ha tutto questo dolore, tutta la sofferenza ? Ho trovato una risposta? Sì e no, ma una vera risposta non ha molta importanza. Non c’è infatti una vera risposta, non una che potremmo comprendere. E’ come quando Emma che è nell’età del perché, inizia a chiedere a cascata perché di questo e perché di quello. Si arriva, anche a voler sempre spiegare il motivo delle cose, ad un punto morto, un vicolo cieco. L’unica risposta possibile è: perché così è. Questa risposta non vi ricorda il “così sia” che si dice ogni volta che si prega o che si fa il segno della croce? A me fa.  sì. Semplice? No, tutt’altro, è estremamente difficile. Se per una bambina accontentarsi di una risposta simile è relativamente facile, per noi adulti è piuttosto ostico. Noi vogliamo, anzi, pretendiamo sempre una risposta. E quando non possiamo averla, capita che ci arrabbiamo. Con chi? Beh, questo non ha importanza, o meglio, non importa che il bersaglio della nostra rabbia ne sia effettivamente la causa. E’ a questo punto che decisi che non mi sarei fatto dominare dalla rabbia. Anzi, compresi che se ci sono domande così fondamentali che rimangono senza risposta, allora noi uomini siamo come bambini di fronte a un mistero, e Qualcuno, immensamente più grande di noi, ha le risposte. Scoprii l’amore di Gesù, e mi entrò nella mente e nel cuore. Conosco la storia di Giobbe come la conosce la maggior parte delle persone. Lessi una volta in un libro una versione che faceva colloquiare Dio e Satana, e quest’ultimo contestava al Signore che era facile adorarlo ed essere a Lui fedeli quando tutto andava bene. Così Dio scelse il più buono e devoto tra gli uomini e, una alla volta, gli mandò le più terribili disgrazie. Giobbe non perse la sua fede in Dio, anche se si fece molte domande, e il Signore ebbe ragione sul maligno. Giobbe fu quindi premiato e riebbe la sua vita felice e molto di più. L’angoscia di Giobbe è l’angoscia che tutti subiamo quando siamo messi alla prova con situazioni dolorose e che non riusciamo a comprendere. A Giobbe non mancava di certo la fede, e neppure la pazienza. La pazienza. E’ la seconda volta che uso questa parola, ma cos’è la pazienza? Per definizione è la capacità di sopportare le sofferenze, non reagendo e sopportando. La sua etimologia affonda le radici proprio nella parola “dolore”. Non mi soddisfa. Una reazione ci deve essere, per non essere travolti e affondare negli abissi. La pazienza è la capacità, e soprattutto volontà, di continuare ad amare nonostante la sofferenza. E’ l’amore la chiave di tutto, il cemento che unisce le nostre anime, ed è l’unica arma possibile contro il dolore. A Giobbe quindi mancò qualcosa che l’avrebbe sicuramente aiutato, se non a comprendere, almeno a metabolizzare la sofferenza in un modo diverso. Noi ce l’abbiamo, l’abbiamo sotto gli occhi ogni volta che guardiamo il crocefisso, ed è l’amore ed  il sacrificio di Gesù. Quale migliore insegnamento possiamo trarre, se non quello di abbandonarci alla volontà di Dio? Gesù ci ha mostrato la strada, quando, anche nel massimo momento di angoscia e disperazione, quando addirittura sudava sangue, ha detto al Padre “Sia fatta la Tua volontà”. Totale abbandono. Beh, noi però siamo solo uomini e, con tutte le nostre debolezze e dubbi, possiamo solo provare a non farci sopraffare dall’angoscia. E dalle domande senza risposta. Che poi una risposta, anche se ci fosse, cosa cambierebbe? Se ci martelliamo un dito mentre piantiamo un chiodo nel muro, sapere che è stato il martello, o di chi sia la colpa, ridurrebbe il dolore al dito? Non penso. Se io avessi la risposta, provata e verificata, alla domanda che mi sono posto all’inizio della malattia, il mio livello di sofferenza si abbasserebbe? Non credo. Anzi, ne sono certo. Del resto il fato, per i non credenti, o la volontà Divina, per coloro che hanno fede, non chiede la nostra opinione prima di far accadere i fatti della vita, tanto quelli belli e certamente graditi, quanto quelli brutti e a volte insopportabili. Il saggio dottor Pangloss del “Candido” di Voltaire afferma, anzi, ne è stoicamente convinto, che questo sia il migliore dei mondi possibili, nonostante le numerose disgrazie che gli capitano. Non so se ciò sia vero. Mi vengono in mente giusto due o tre cose che di questo mondo cambierei, anche senza far volare troppo in alto la fantasia. Sono però certo di una cosa, fin nel profondo del mio cuore: Qualcuno che ci ascolta, e ascolta tutte le nostre domande e preghiere, le nostre grida, c’è. La vera domanda che dobbiamo farci, è: siamo sicuri noi di ascoltare le Sue risposte? Grazie a tutti per l’attenzione.

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