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Hospice:distillato di vita

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Foto da Verso Sera, n 64, Giugno-Settembre 2019, p. 3

La nascita dell'Hospice di Borgo Palazzo

Verso la fine degli anni ‘90 almeno il 20% di malati inguaribili e in fase avanzata aveva la necessità di ricovero [...]. L’Associazione Cure Palliative di Bergamo lanciò l’appello, rivolto all’intera comunità, per creare in città l’Hospice che completava il cerchio “degenza-domicilio” e i bergamaschi risposero subito e con determinazione. Fu una raccolta di fondi strepitosa, con spettacoli, conferenze, cene, imprese sportive, ..., con la partecipazione di anche, Fondazioni, Aziende, studi professionali, Diocesi, gruppi sportivi, famiglie, cittadini di ogni ceto... In poco più di 3 anni venne totalmente ristrutturato un padiglione di Borgo Palazzo (ex manicomio) e ACP (Associazione Cure Palliative) lo affidò interamente agli Ospedali Riuniti perché fosse il primo Hospice pubblico in Italia. Nel 2000 Kika Mamoli, allora Presidente ACP, tagliò il nastro dell’inaugurazione e dedicò ogni giorno a migliorare questa importante struttura, nella quale venne poi ricoverata e morì nel 2005: ora l’Hospice porta il suo nome! “   

 

Arnaldo Minetti, Verso Sera, n. 69 Febbraio-Maggio 2021, p. 5-6

Foto da Verso Sera, n 64, Giugno-Settembre 2019, p. 5

Testimonianze

Aurora Minetti, all'incontro del 15.2.24 di Bergamo Incontra

Io inizierei in realtà da una considerazione che mi viene piuttosto spontanea, che poi è anche il motivo di questa circostanza: tutti prima o poi si muore. E questo è un dato di realtà, e iniziare a parlare di morte, di morire e di come si muore forse è il caso, a maggior ragione tra l'altro in un luogo come quello in cui ci troviamo, una chiesa, che non è un caso, è un luogo che per antonomasia è simbolo di accoglienza, di accompagnamento, del prendersi per mano. E credo che lo spunto, lo stimolo che tutti abbiamo raccolto dal libro che hai scritto, è proprio quello di parlare, di parlare di morte e di morire perché abbiamo bisogno di normalizzarla, e non di vederla o di concepirla come qualcosa o da nascondere o da considerare sempre all'interno di un immaginario che non c'entra, che è un immaginario fortemente vincolato e veicolato da tutta una serie di input che purtroppo sempre di più connotano anche la nostra vita. Allora iniziare a parlarne, iniziare a anche entrare nei luoghi della cura, credo che sarebbe il modo migliore per iniziare ad affrontarla e a viverla in maniera diversa. Io ho detto che l’Hospice (io in questo caso parlo come rappresentante in realtà di una grandissima comunità di persone, di volontari che insieme, a partire dalla fine degli anni 80, proprio in virtù del fatto che soprattutto in quegli anni parlare di morte era molto faticoso, queste persone iniziarono a credere in un sogno e a mettere al centro la speranza che si potesse fare qualcosa di diverso da quello del lasciare che le cose andassero così, perché erano stufi, perché non era giusto, e cito una frase particolarmente cara a me e a tutti i volontari che hanno partecipato attivamente a questo movimento, che poi ha portato alla costruzione del primo Hospice (sappiate che l'Hospice di Borgo Palazzo è il primo Hospice pubblico nato in Italia, quindi immaginatevi in quegli anni che fermento c'era. La frase a me particolarmente cara e che poi è la stessa frase che portò il movimento a diventare davvero imponente, fu: “Basta, non vogliamo più vedere morire di dolore, urlare di dolore”. La frase è forte, però da lì partiva e da lì nacque tutto questo grande fermento che poi portò alle cure palliative prima a domicilio (perché l'hospice era già un sogno che prevedeva che ci fossero tanti fondi innanzitutto per costruire quello che non c'era, poi un'organizzazione dietro e poi l'Hospice eccetera eccetera) Lo definisco un distillato di vita perché poi all'interno di queste istituzioni, di queste organizzazioni davvero si celebra la vita. Io avrei da portarvi mille e mille racconti e testimonianze di quello che succede lì dentro e io vi chiedo “Aiutateci a non chiamarli più i luoghi della morte” sono luoghi in cui le persone, come tutti noi, trascorrono forse uno dei pezzi più importanti della loro vita, e proprio dentro quei pezzi così importanti ci sta la relazione. Io ho memoria anche attraverso i nostri volontari di ricordi di tantissime persone che hanno abitato l'hospice di Borgo Palazzo, e vi assicuro che in ogni situazione ad aver raccolto di più siamo stati noi che abbiamo accompagnato, noi volontari ma anche noi operatori. Sappiamo di aver dato certamente tanto, ma dentro a quel luogo è ancor di più quello che si prende. Io mi ricordo e mi permetto di fare qualche pennellata di persone che sono transitate in Hospice e che hanno davvero anche aiutato l'Hospice di Borgo Palazzo ma anche gli altri Hospice a diventare dei distillati di vita. In Hospice noi abbiamo celebrato le lauree ( sembra un paradosso! Ma come, arrivati al fine della vita com'è possibile celebrare qualcosa che in realtà detta un pezzo di vita che non può più esserci) abbiamo celebrato anche matrimoni, ci sono stati ricongiungimenti, ci sono state situazioni in cui, motivati probabilmente ma non necessariamente da una consapevolezza di fine vita, si sono esplicitati in momenti di grandissima gioia. Io ricordo con grande affetto un nostro paziente che trovandosi in Hospice, quindi lontano dalla sua casa, dai suoi affetti, dalle sue abitudini, continuava ricordare e a ricordarci dei suoi cani. E voi direte: i suoi cani!? I suoi cani erano i suoi veri compagni di vita. Dentro a quell'ambiente, a quella “strana casa” perché è quasi paragonabile a una casa, a una grande famiglia, l'attività e il fermento che si è attivato per riuscire a portare quegli animali accanto a quel paziente e lasciare che quel paziente potesse vivere gli ultimi giorni della sua vita come voleva e accanto chi voleva, è stato il più bel dono che ancor più che noi a lui ha fatto lui a noi. In quel luogo questo è possibile, così come è possibile stare accanto al proprio caro giorno e notte, senza orari, perché l'importante è “stare accanto”. Io da questo punto di vista mi occupo fondamentalmente della formazione dei nostri volontari e una delle cose che si insegna loro è quella di stare sempre un passo indietro piuttosto che un passo in avanti, e qua torniamo al discorso sull'importanza della relazione. Potrei star qui ore a raccontarvi storie di vita trascorse all'interno dell'hospice e magari un giorno ci sarà occasione per scriverle e raccoglierle, perché credo che appartengano tutte, in un certo verso, a ognuno di noi, perché prima o poi toccherà anche a noi. In Hospice davvero succede di tutto perché l'attività dei volontari accanto agli operatori è un'attività che va avanti di pari passo, c'è una grandissima condivisione di quelle che sono le pratiche quotidiane, ovviamente con competenze estremamente diverse e obiettivi diversi, però la presa in carico di quello che succede in reparto è molto condivisa. Ovviamente una delle mansioni principali che svolgono i nostri volontari è quella dello stare, dello stare accanto, non necessariamente del fare, facciamo già tanto fuori nella nostra vita! In quell'ambiente ci permettiamo di “stare” e dentro quello stare che è fatto anche di silenzi ho scoperto l'importanza del silenzio. Non sappiamo stare neanche in silenzio, invece è fondamentale e nel concedersi il silenzio per mettersi in ascolto dell'altro possono nascere tantissime cose. I nostri volontari sono quelli che in maniera ormai molto addestrata dopo tanti anni raccolgono i desideri più nascosti dei nostri pazienti come quello, ad esempio, e a me viene sempre in mente, di quel paziente che di notte si svegliò e gli venne una voglia pazzesca di pasta con le vongole! Che umano!! E allora dato che noi di fronte l'Hospice abbiamo un supermercato aperto 24 ore noi siamo riusciti fargli la pasta alle vongole. È ovvio, sono aneddoti, però vi danno lo spessore di quello che succede lì dentro e allora da lì nascono coccole fatte di dolci, di torte, di pomeriggi trascorsi insieme… Attorno all'Hospice c'è un grande parco e peraltro una parte di questo viene curata dagli stessi volontari con dei fiori e lì si accompagnano gli ospiti durante le belle giornate. E anche lì c'è tutta un'attività in cui si fanno le aiuole e insieme si gode dei piccoli attimi, che vuol dire magari il concedersi 5 minuti di sole, di caldo, di tepore dietro la finestra. Noi come Associazione in accordo con l'Ufficio scolastico ormai da veramente tantissimi anni entriamo nelle scuole, e può sembrare strano ma è possibile entrare nelle scuole e parlare di morte e di morire con i ragazzi nel periodo nel loro periodo più lontano dall'idea di morte, perché sono giovani. Di solito entriamo nelle terze, nelle quarte e nelle quinte dei vari tipi di istituti e di licei e facciamo dei percorsi volti a sensibilizzarli rispetto a un tema con cui è bene iniziare a familiarizzare e socializzare. Le esperienze sono state tantissime e però io devo dire che mi porto appresso da ogni esperienza un filo rosso che le ricongiunge tra di loro che è questa incredibile modalità che loro esprimono all'interno di tutti i percorsi che noi facciamo, perché si divertono anche, cioè all'interno di quei discorsi che dovrebbero in realtà connotarsi prevalentemente di immaginari tristi, bui, cupi riescono, attraverso la socialità che si sviluppa all'interno delle classi, a trovare speranza e un modo per ridare senso a un tema che in realtà ha un senso. Porto degli esempi per dare conto in maniera un po' più forte di quello che sto dicendo: mi capitò di andare fare della formazione in un liceo artistico quindi già per vocazione quei ragazzi si presentavano piuttosto creativi. Dopo il percorso fatto, un percorso di più lezioni, rispetto all'importanza della qualità di vita per poi passare alla qualità del fine vita, chiesi ai ragazzi di lasciarci qualcosa che potesse rappresentare le cure palliative attraverso la loro creatività. In particolare, chiedemmo loro di immaginarsi qualcosa da poter portare addirittura in Hospice, da mettere in Hospice. Quindi l'impegno e l'obiettivo non erano facili. Dopo qualche mese, la Scuola ci chiamò e questi ragazzi ci fecero un dono incredibile! Ci regalarono una vetrofania enorme, di parecchi metri, perché il nostro Hospice nella campata centrale è caratterizzato da una grandissima finestra che si affaccia non sul parcheggio ma sul bellissimo giardino. Su questa finestra enorme fecero una vetrofania coloratissima, che restituiva un'immagine di vita e di vitalità incredibili!!! E questo era il loro lascito rispetto a quello che gli era rimasto di tutto il percorso che avevamo fatto: queste per loro erano le cure palliative. E c'erano gli arcobaleni, c'erano gli alberi, c'erano le foglie, e uno non se lo aspettava per nulla, ed era un rimando che ci riportava e ci restituiva un'idea di morte e di morire molto più vicina alla natura e al normale, se volete meno acculturata come idea, che ci ha davvero commosso e entusiasmato.

Aurora Minetti, Verso Sera, n. 72 Febbraio-Maggio 2022, p. 4

“La vulnerabilità, al pari della fragilità, può aprire al nuovo! (…) Senza progetti condivisi, senza spazi condivisi, senza azioni condivise, non esistono relazioni e risultati capaci di restituire fiducia, generare successi e quindi nuovi stili di vita e solidarietà! Tra sconosciuti non può esserci altro che la distanza se non si creano ponti. (…) le nostre azioni sono paragonabili a vere e proprie occasioni in cui coltivare cura, in cui prendono forma legami capaci di ascolto, progettualità condivisa e quindi assunzione di responsabilità reciproca.”

Testimonianza di una volontaria ACP Onlus in Verso Sera, n. 72 Febbraio-Maggio 2022, p. 5

“Da aprile svolgo il mio volontariato presso il centro vaccini al Papa Giovanni XXIII, e nelle ultime settimane ci siamo dedicati ai vaccini dei bimbi. Accoglierli cercando di capire il loro sguardo dietro le loro mascherine colorate, trovare le parole giuste per vederli sorridere e’ stato facile, grazie al fatto che hanno iniziato a venire durante il periodo natalizio, quindi parlare di regali, chiedergli il nome e l’età, salutandoli con pugno contro pugno o un “dammi un cinque” e’ stato uno spunto per rompere il ghiaccio, in fondo dentro ad ognuno di noi resta sempre quell’ essere bambino. Loro mi hanno fatto capire il vero significato della parola Affidarsi. Si fidano dei loro genitori che gli spiegano il perché della puntura con parole semplici e che non sentiranno dolore perché i dottori e le infermiere presenti sono bravissimi. I bimbi sono adulti in miniatura, con le loro fragilità e le loro preoccupazioni, sono consapevoli del fatto che quello che stanno facendo serve per il loro bene e per quello degli altri, ogni tanto può capitare che qualcuno pianga un po’ troppo forte e che per non spaventare chi è in attesa i genitori trovino espedienti per non spaventarli più del dovuto, a volte anche io provo ad intervenire inventando dei giochi per distrarli, oppure facendogli domande riguardanti la scuola, lo sport, i loro interessi per farli parlare così si distraggono dal pianto. Poi quando tutto è’ finito e sono fuori li osservo mentre scartano curiosi il Dono ricevuto dalle infermiere o mostrando orgogliosamente il Diploma di merito. Ti avvicini per chiedere se tutto va’ bene o se devo sgridare l’infermiera che gli ha fatto male, alla loro risposta “no“ mi allontano e loro si perdono nel gioco o nell’abbraccio della mamma e del papà che gli promettono una buonissima merenda. Abbracci che proteggono o abbracci inaspettati che avvolgono le tue gambe, come mi è successo con un piccolo bimbo, non potevo che chinarmi e contraccambiare quell’abbraccio sotto gli occhi compiacevoli della mamma, oppure come quella di poter essere stata un riferimento per una piccola amica, rassicurandola con la mia presenza. È stata ed è una bellissima esperienza e inusuale come tipologia di volontariato che facciamo generalmente presso l’Hospice o nel Day Hospital Oncologico che la pandemia ci ha obbligati per il momento a sospendere o in alcuni casi riprendere a turni ridotti, ma anche ciò che è brutto finirà e riprenderemo a fare ciò che abbiamo sospeso. Piano piano e con molta attenzione stiamo riprendendo la nostra strada accanto ai pazienti, al personale sanitario e parenti, ma con qualcosa di più rispetto a prima, tanti ricordi da condividere e abbracci.

Adele Barzaghi, Verso Sera, n. 72 Febbraio-Maggio 2022, p. 7

Entrando nel chiostro piccolo del monastero è come se mi avesse chiamato: ho alzato lo sguardo, ci siamo incontrati, e da quel momento non ho visto altro. Era sotto la volta, vicino ad una lanterna che lo illumina, un tondo affrescato raffigurante un uomo che sembra guardare l'eternità mentre scrive il presente. Nelle mani ha una penna e un libro aperto sul quale annottare tutto, senza perdere un dettaglio. So che quell'uomo è San Giovanni Evangelista ma i suoi occhi rivolti al cielo mi ricordano quelli delle persone che stanno morendo, come a invocare qualcuno di invisibile che è sopra di noi. Chiudo gli occhi e penso a quante volte mi sono trovata ad annotare, anche solo mentalmente, immagini, rumori, odori di quella stanza dell'hospice dove qualcuno stava trascorrendo i suoi ultimi giorni di esistenza terrena, e vedeva tutta la sua vita passargli davanti agli occhi. Noi volontari siamo una “presenza” che cerca di colmare il vuoto dei momenti in cui non è presente nessun parente o amico. Quante storie ho ascoltato in questi dieci anni! Storie che si snocciolano nella mia mente come i granelli di una corona. Storie semplici, ordinarie, ma che in quel preciso istante diventano LA STORIA e si intrecciano con la mia. Rivedo Patrizia, Alberto, Alessio, Maria, Silvia e molti altri ancora, che mi hanno lasciato ricordi, confidenze, emozioni, e con cui ho condiviso lacrime e risate, perché la vita è vita fino all'ultimo respiro. In un luogo che tutti reputano anticamera della morte, io ho trovato la condivisione, ho imparato a stare sempre un passo indietro, in ascolto. Rialzo gli occhi per rivedere il dipinto e mi accorgo che la metà inferiore è quasi completamente cancellata dal tempo, ma non mi interessa…mi bastano solo quello sguardo e quel libro.

Martina Sesti, Verso Sera, n. 77 Gennaio- Aprile 2024, p. 5

“Ciao a tutti, sono Martina e vorrei raccontarvi del mio lavoro come Musicoterapeuta in Hospice. Ho iniziato a lavorare qui a marzo dello scorso anno. Fin dal primo giorno sono stata accolta dal personale e dai volontari con gentilezza. È davvero un luogo dove ci sono “condivisione e amore”, come mi disse uno degli ospiti durante uno degli incontri. Ogni ospite che ho incontrato e con cui ho fatto attività mi ha donato la sua musica, le sue emozioni, racconti di vita e insegnamenti che porto con me. Per me lavorare in Hospice è un dono speciale, perché posso utilizzare il linguaggio musicale per condividere con gli ospiti dei momenti che fanno passare loro più in fretta il pomeriggio, tengono compagnia, fanno sorridere, creano sollievo e rilassano. Profondità e sincerità sono le prime due parole che mi vengono in mente pensando alla qualità della relazione che si instaura con le persone che incontro, una relazione che comunica attraverso questo magico linguaggio universale, che unisce e crea condivisione senza parlare. “Dove le parole finiscono inizia la musica” perché ogni persona ha una storia unica da raccontare e la musica può aiutare a esprimere emozioni o vissuti che non si riescono a verbalizzare. L’attività di musicoterapia si svolge individualmente nelle stanze degli ospiti, che mi accolgono sempre con parole gentili o un sorriso. Alcune persone hanno voglia di sentire solo suonare l’arpa e prendersi un momento per rilassarsi chiudendo gli occhi, prendendosi una “pausa” dalla situazione in cui si trovano. Lasciandosi abbracciare e cullare da questo suono dolce, immaginano di essere sulla spiaggia, in un bosco, vicino ad un ruscello, di trovarsi in un luogo che dona loro pace e serenità. C’è chi ha anche voglia di scegliere delle canzoni da ascoltare e parlare di sé attraverso la musica. Una canzone, un cantante, un gruppo musicale, sono collegati a dei momenti di vita, a delle emozioni, al ricordo di una persona amata, ai vissuti familiari, ed è qui che la musica diventa narrazione di una vita. Mentre ascoltiamo la musica, parliamo attraverso, uno sguardo, un commento, una parte della canzone cantata assieme, una parola detta tra un silenzio e un suono. La musica ascoltata in compagnia riesce a donare un momento di sollievo in cui non pensare e concentrarsi solo sull’ascolto, lasciando andare tensioni, preoccupazioni, scacciando la tristezza o facendola uscire per poi sentirsi sollevati. Sono felice di lavorare in Hospice e poter creare attraverso l’unione di musica, emozioni, sguardi, vissuti e parole, una melodia speciale e unica per ogni ospite che incontro. Questa melodia resta per me nel tempo come ricordo prezioso da custodire.”  ​

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Addio al papa' dell'Hospice Arnaldo Minetti 

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Arnaldo Minetti: un sogno realizzato

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