Anna e Lino
Anna si affida alle cure domiciliari per il marito. Hanno scoperto due settimane prima la malattia, già molto avanzata. La chemioterapia non porterebbe nessun beneficio, ora l’obiettivo è provare a gestire nel miglior modo possibile il dolore e i disturbi. Il marito è un uomo concreto, di poche parole, consapevole della malattia, affaticato; chiede aiuto sul dolore che è molto forte e lo limita a vivere fra letto e poltrona. Non si lamenta, è grato a sua moglie, perché “è un tornado, non sta mai ferma, è sempre qui per me”. La coppia ha una figlia, che abita vicino e un figlio con cui non parlano da anni. “L’altro giorno ho provato a chiamarlo perché ho saputo che non è stato bene... Non mi ha risposto. Allora gli ho mandato un messaggio chiedendogli come stava e accennandogli che il papà non stava bene nemmeno lui… non volevo che non sapesse nulla del papà. Anche mio marito era d’accordo, ma mi ha detto: “Tu scrivigli, ma non rimanerci male se non ti risponde…”. Alla sera squilla il telefono ed era lui, ho risposto e ho sentito “Ciao mamma…”. Era due anni che non mi sentivo chiamare mamma da mio figlio… Che commozione… E stasera dovrebbe venire anche a trovarci! Mi devo preparare a lasciare mio marito dopo 45 anni di matrimonio e proprio adesso ritrovo mio figlio, dopo due anni che non avevamo più alcun rapporto; la malattia di Lino è diventata l’occasione per risentirlo! A me non interessa nulla del passato, voglio solo vivere serenamente quello che ci aspetta. Da quando siete arrivati voi io mi sento sicura. Non so cosa mi aspetta ma sono tranquilla perché non siamo da soli”. Darsi le consegne che riguardano quella famiglia, chiedere a Lino come sta, porta dentro inevitabilmente la condivisione di quel vissuto, quel pezzetto di vita di cui Anna ci ha voluto rendere parte e che ha permesso di entrare in relazione, un coinvolgimento, un’attenzione che vanno oltre la tecnica e la terapia, ma si allargano ai bisogni di relazione, di pace, di compagnia…
Luigina
Luigina era una donna decisa, tre figlie femmine. Era perfettamente consapevole della sua malattia e sapeva quello che desiderava; sapeva anche che le tre figlie avevano opinioni diverse tra loro e desideravano cose diverse per lei. Vedeva la sua difficoltà, ammetteva che prima o poi sarebbe ricorsa all’hospice, ma per ora voleva stare a casa. Restiamo d’accordo che pensiamo un giorno alla volta e per ora pensiamo a stare a casa nel migliore dei modi. Le condizioni peggiorano, l’autonomia si riduce, ma quando arrivo da lei mi dice sempre che sta bene, che con la terapia si sente meglio e che si è già attrezzata, grazie all’interessamento di una delle figlie, per un’assistente che venga da lei qualche ora al giorno. Alla visita successiva ormai non mangia quasi più, è allettata e dipendente in tutto dalle assistenti che nel frattempo sono diventate due, oltre alle figlie che si alternano. La guardo e le chiedo se non sia arrivato il momento di scegliere per la struttura… “Cosa ne dici di pensare alla struttura come a una possibilità per te di rilassarti e lasciar fare ad altri ciò che finora hai gestito tu?” “Eh sì dottoressa, adesso in effetti sono proprio stanca e qui diventa impegnativo…” Il posto in hospice c’è già per il giorno dopo; una figlia è in crisi, sa che la mamma vorrebbe restare a casa. Le altre sono sollevate perché si sentono inadeguate e sono preoccupate di ciò che può succedere. Luigina in hospice non ci arriverà mai, si è spenta senza sintomi quella stessa notte. È stato davvero un piacere conoscerla. Un carattere forte ma affabile, leale nel rapporto. Capace di sdrammatizzare anche situazioni difficili. Una donna ironica e decisa che si è affidata con semplicità e ha accettato la vita con ciò che poteva offrire, senza pretese ma senza perdere la speranza. Una bella persona.
Sofia e Giacomo
Elena, mamma di Sofia: “Io Giacomo (l’infermiere) lo conoscevo già, aveva assistito mio papà; è sempre stato disponibile e professionale, non posso lamentarmi. Ma con Sofia (la figlia di 31 anni), ho conosciuto un'altra persona… spesso passa anche se non era prevista la visita, si ferma per salutarla, controlla che vada tutto bene; a volte prende solo il caffè o lascia una scatola di farmaco anche se sa benissimo che non lo abbiamo ancora terminato. Non fa mai le cose di fretta, non l’ho mai visto guardare l’orologio; ma soprattutto, forse non si rende nemmeno conto di farlo, tutte le volte prima di uscire di casa, si ferma, si gira, mi guarda e ci dice: “e mi raccomando, qualsiasi cosa, chiamate!” Lo fa ogni volta!” Francesca, medico di Sofia: “Con Sofia a Giacomo è successo qualcosa, stare davanti a una sua coetanea che continua a vivere la sua vita, con i grandi limiti imposti dalla malattia ma senza farsi limitare da essa nella voglia di continuare a vivere, rapportarsi con il fidanzato, le colleghe, la famiglia… Portare la consapevolezza della prognosi senza lamentarsi, continuare a desiderare le piccole cose del quotidiano e attaccarsi ad esse… Tutto questo è stato per Giacomo come una calamita… Sofia si è spenta, vivendo fino all’ultimo istante; ha condotto tutti per mano con una discrezione che pochi hanno; non ha mai smesso di desiderare e perseguire ciò che poteva avere: il gelato, l’ultimo taglio di capelli pochi giorni prima, alcune visite, il suo posto sul divano, il bagno caldo con l’aiuto della mamma ma l’essere portata a letto dal fidanzato…; si è lasciata anche guidare, si è fidata di noi operatori anche se era del mestiere. La sofferenza di una giovane donna, la sua accettazione silenziosa e la sua tenacia ci pongono inevitabilmente domande sul senso della nostra esistenza, ci rimettono in moto come persone oltre che come professionisti. Ci rendono più desiderosi di spenderci come possiamo per portare con queste famiglie almeno un po' della loro croce.”
Teresa
In quest'ultimo periodo ho vissuto purtroppo situazioni molto difficili che mi hanno messa a dura prova. L'anno scorso ho vissuto la malattia di mio marito che ha sconvolto la mia famiglia, ma che ci ha unito ancora di più per darci forza l'uno con l'altro. L'ho assistito e l'ho accudito fino all'ultimo, cercavo di dargli coraggio anche se ne serviva a me. Purtroppo ci ha lasciato in pochi mesi, lasciando un senso di vuoto incolmabile. Credo però che mio marito se ne sia andato serenamente, ha visto tutto l'amore che ha ricevuto dalla sua famiglia e questo è stato molto importante per lui ma anche per noi, per andare avanti in pace con noi stessi, consapevoli di aver fatto tutto il possibile per la sua malattia e per non farlo soffrire. Ora sto vivendo la mia malattia, arrivata all'improvviso quando iniziavo a stare bene e guardavo avanti. Così mi trovo a vivere in prima persona quello che ha passato mio marito. Ora sono io che devo affrontare la malattia ed essere aiutata. In questo periodo di preoccupazioni mi rendo conto che ricevere l'amore della mia famiglia è la cosa più bella. Capisco ancor di più quanto bene mi vogliono. Mi danno la forza per reagire e la speranza per andare avanti. Mi rendo conto che, anche se nella sofferenza, sono davvero fortunata come lo è stato mio marito. In questi momenti capisci che ricevere cure e accudire sono fra le forme d'amore più belle che una persona può ricevere.
Testimonianza di Felino Tassi, volontario
Le cure palliative rientrano nella grande categoria del dolore che rimane per tutti e per ciascuno una domanda apertissima a cui la società risponde obliterando e nei casi più gravi a risolvendoli con l’eutanasia. Spesso i volontari sono in grado di intercettare i desideri che i medici impegnati nella tecnica e nelle scartoffie non riescono a notare, così il malato con la vicinanza dei volontari resuscita i suoi desideri e in un certo senso ricomincia a vivere: “a dare vita ai suoi giorni” come diceva Cicely Saunders. Ma così facendo accade anche, in alcuni casi, che si aggiungano giorni alle loro vite, tanto che i medici cominciano a pensare che l’attività di counsueling dei volontari sia spesso terapeutica. Se le cure palliative sono solo per i malati terminali, l’approccio dei volontari invece vale per tutte le persone malate, soprattutto anziane, e che spesso vivono vicino alle loro case e non sono ospiti in un hospice di cure palliative. Il malato spesso si isola ed isola la sua famiglia. Il suo dolore non è soltanto fisico, ma anche morale, sociale, spirituale e sociale e gli hospice possono farsi carico di questo dolore. Quando entro nelle case degli ammalati c’è spesso un dolore vissuto in solitudine: coloro che il malato frequentava spariscono perché hanno paura di incontrarlo, di andare a trovarlo e lo stesso malato non vuole farsi vedere. Tutto si rompe e anche la casa dove abiti, che hai sognato e per cui hai sudato, non vale più niente. Ti senti di peso a tutti, ai figli, ai nipoti…..a tutti. Eppure quando un volontario entra in una casa ogni volta scopre che tutti lo stavano aspettando, non soltanto la persona malata. Arriva un figlio, poi un genero e piano piano anche qualche altro familiare e nel tempo condiviso nasce un’amicizia con tutta la famiglia, un'amicizia globale che spacca il dolore globale, che dà speranza e vita alla persona malata, che genera comunità. La figlia di un novantenne allettato Pietro, si è lamentata con me dell’autoritarismo di suo padre quando lei era giovane. Stando con lei giorno per giorno ho potuto dirle che pure io avevo vissuto un rapporto conflittuale con mio papà, ma che di fronte alla malattia ultima arriva il momento di fare pace una volta per tutte: e lei lo ha fatto. Non faccio niente di eccezionale o di particolarmente “furbo” psicologicamente: non ne sarei in grado. Prima di partire la domenica mattina mi fermo un attimo in Chiesa e chiedo la grazia al Signore di entrare Lui in quelle case. Io semplicemente sto a quello che avviene. Basta starci, ascoltare, vegliare. «Ero malato e mi avete visitato…». Le parole di Cicely Saunders nel suo libro “Vegliate con me” a pag. 44, descrivono bene la dinamica che io stesso sperimento: «Il nostro fondamento più importante per il St.Christopher è la speranza che nel vegliare possiamo imparare non soltanto come rendere i pazienti liberi dal dolore e dalla sofferenza, come capirli e non abbandonarli mai, ma anche come stare in silenzio, come ascoltare, come esserci. Nel comprendere ciò capiamo anche che il vero lavoro non è affatto nostro. Stiamo costruendo qualcosa di più grande di noi. Penso che se ricorderemo questo ci renderemo conto che si tratta di un lavoro per la gloria più grande di Dio».